Sortinguerra, E fia cagion di pace e di allegria; Quanto è l'udire e il dir parole vere, Senza fofpetto d'inganno e bugia; E la data parola e ftabilita
Mantener anche a prezzo della vita.
Come al contrario la pace rovina E del vivere ogni ordine confonde La lingua, che col core non confina; Ed una cofa moftra, una ne afconde La veritade ell' è cola divina,
E in noi dal primo vero fi diffonde; La menzogna del diavolo è figliuola, E con effo va fempre, ovunque vola.
Felici quefte felve, e questi boschi, U' pefte sì crudel non giunfe ancora! Qui non fi vedon lagrimofi e fofchi Occhi, che il noftro mal piangan di fuora: E il piangan folo, perchè tu il conoschi, E poi dentro del cor fefta e baldora Faccin de' mali tuoi, conforme fanno! Quelli, che in mezzo alle gran corti stanno:
Qui non fono nè sbirri, ne notai, Nè carceri, nè funi, nè berline, Nè Fiorentini, che co' negri fai Menino i malfatori a trifto fine: Ma la fè, ch'è di lor più forte affai; Fa che niun dal giufto mai decline; E la data fra noi parola basta, Più che di protocolli una catafta.
Ma più d'ogni altro poi prezzar fi tuole La fè, che tra di lor danfi gli amanti, Che pria vedraffi fenza luce il Sole, Che paftorelle o paftori incoftanti. Niun di tradimento qui fi fuole Dal dì, dall'ora, da que' primi iftanti Che d'amarfi l'un l'altra afferma e giura, Quel folo amor fino alla morte dura.
Nè a quel ch' lo veggo, così bella ufanza Solamente è nelle Arcade contrade; La fedeltade ancora in Perfia ha ftanza, Come udirete, quando che vi aggrade, Se di narrarlo avrò tanta poffanza. Le dolorofe flebili rugiade Afciugate s'avea la giovin bella, Quando che prefe a dire in tal favella:
In Bachia io nacqui, città ricca e vaga Che del Mar nero in fu la riva fiede; Gente di mercantar cupida e vaga La dirizza le vele, o pure il piede. La cofa mia era contenta e paga De' beni, che fortuna ci concede; Perchè di Perfia, toltine ben rari, Niuno ha più di noi terre e danari,
Me fola il genitore ebbe, e fol' io De' giovani Perfiani era la brama; E la bellezza ancor del volto mio, Che del vero maggior dicea la fama. Accrefceva in ciascun voglia e defio D'avermi in moglie; e ciafcedun mechiama
Sortinguerra. Sua vita, e fuo conforto e mille e mille, Nol fapendo, d'amor fpargo faville.
Ma non comprende giovanetta acerba Si facilmente i fegnali d'amore; Onde detta fprezzante era e fuperba, E che di vivo faffo aveva il core. Ma come angue talor tra i fiori e l'erba Si cela, e morde poi chi coglie il fiore: Così cupido fi nafcole un giorno Negli occhi d'un garzon vago ed adorno.
E mentre feco parlo, a poco a poco Nafcer mi fento un non fo che nel feno, Ch' ora mi pare, ed or non mi par foco. La folita allegrezza in me vien meno, Nè mi diletta più festa nè gioco; E di defio mi fento il cor ripieno Di riveder quel giovane, e con esso Ragionar fempre, a fempre averlo appresso.
Che più Regine fecero dimande
D'averlo in pofo, e aggiunfero preghiera: Fra l'altre la Regina di Derbande,
Che alla Servania impera, ardeva in guifa Per lui, che alfin d'amor rimase uccifa,
Tangile era il fuo nome, e d'egual fiamma Ardeva anch' effo e non diceami nulla. Ma come in legno verde a dramma a dramma Entra il foco, ed in fin l'umore annulla, Onde improvviso e fubito s'infiamma; Così fendo ei garzone, ed io fanciulla, Stentammo aprender foco, o per me' direi, Non lo potemmo che tardi scoprire.
Un dì (non m'ufcirà mai del pensiero Giorno sì dolce, dilettofo e grato) In un bel bofco per grand' ombra nere Io mi fedeva nel calor più ingrato; Quando viene l'amato cavaliero, E fenza nulla dir mi fiede a lato, Ci guardammo, e tacendo, mille cofe Si differo tra lor l'ale amorofe.
Tutto tremante poi la man mi prefe E fofpirando diffe: Io te fola amo. Di vivo foco il volto mio fi accefe, Poi foggiunfi ancor' io: Te folo io bramo! Ma non fperar, che ma i ti fia cortefe, (E Giove a' detti miei prefente io chiamo) Se non mi giuri d'effermi conforte: Altrimenti fon pronta a darmi morte,
Tangile allora invocò tutti i numi
Del cielo, dell' inferno, e della terra, E quei de mari, e qualli ancor de fiumi; Perchè dice fpofarmi, e vuol, s'egli erra, Che co' fulmini il cielo lo confumi, E Nettuno e Pluton gli movan guerra. Ei mentre così parla, dalla gioia
Io vengo meno, ed egli par che muoia:
Il dì feguente il padre mio ritrova,
E fenza altro indugiar mi chiede in moglie: Ciò molto in fuo fegreto il padre approva; Ma fon fofpette giovinette voglie,
E chi lor crede, ingannato fi trova. Però ne' fuoi penfieri fi raccoglie, E dopo affai penjar gli dice: O figlio, Per rifponderti io vo' tempo e configlio.
Tu fei fignor di ricco e bel paese,
E merti moglie a tua grandezza eguale. Da regie vene anche il mio fangue fcefe. Ma fenza ftati fignoria che vale? Onde non poffo convenenti spese Far per l'allegro giorno maritale Ne le fortune mie giungano a fegno Di darti quella dote, onde fe' degno.
Soggianfe allor Tangile: Io voglio folo
La mia foave e dolce Filomena.
(Che tal m'appello; e or l'affomiglio al duolo; Allora nò: ma s'è cangiata fcena) Ella val più, che l'uno e l'altro polo Aver foggetto, e l'Affricana arena,
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