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U uron i u s.

Auronius.

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S. B. II. C. 16. Unter seinen Gedichten sind fünf und zwanzig Briefe , einige in Prore, andere mit Versen untermischt, die meisten aber durchaus- in Versen, befinda lich, die keinen sonderlichen poetischen Werth haben. Auch in dem hier mitgetheilten, der noch zu den besten gehört, ist Gang und Wendung sehr einförmig und unfruchtbar.

AD PATREM, DE SUSCEPTO FILIO.

Et tibi ego.

Credideram', nik posle meis affe&tibus addi,

Quo, venerande pater, diligerere magis.
Accessit (grates Superis medioque nepoti,

Bina dedit noftris qui juga nominibus.
Ipse nepos te fecit avum. Mihi filius idem,

Hoc nato nos fumus ambo patres.
Nec jam fola mihi pietas mea suadet amorem:

Nomine te gemini jam genitoris amo.)
Accessit titulus, tua quo reverentia crescat;

Quo doceam natum, quid fit amare patrem,
Quippe tibi aequatus videor, quod parvulus ifto

Nomine honoratum me quoque nobilitat;
Atque aetas quia nostra eadem. Nam supparis aevi

Sum tibi ego, et porlum fratris habere vicem.
Nec tantum noftris fpatium interponitur annis,

Quanta folent alios tempora dividere.
Vidi ego natales fratrum distare tot annis,

Quot noftros. Aevum nomina non onerant.
Pulcra juventa tibi fenium fic jungit, ut aevum,

Quod prius eft, maneat; quod modo, ut incipiat.
Et placuiffe reor geminis aetatibus, ut fe

Non feftinato tempore utraque daret;
Leniter haec fueret, haec non properata veniret,

Matura in frugem flore manente ferens.
Annos me nefcire tuos, pater optime, testor:

:

Tots Aufonius.

Totque putare meos, quot reor esse tuos. Nesciat hos natos, numeret properantior heres,

Testamenta magis, quarn pia vota, fovens: Exemploque docens pravo juvenescere natos,

Ut nolint patres se quoque habere fenes. Verum ego primaevo genitus genitore, fatebor

Supparis haec aevi tempora grata mihi.
Debeo quod natus, fuadet pia cura nepotis,

Addendum patri, quo veneremur avum.
Tu quoque, mi genitor, geminata vocabula gaude,

Nati primaevi nomine factus' avus.
Exiguum quod ayus. Faveant pia numina Divûm;

Deque nepote suo fiat avus proavus.
Largius et poterunt producere fata fenectam:

Sed rata vota reor, quae moderata, magis.

Algas

Alg a r o t t i.

aigarotti.

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Graf Francesco Algarotti, geb. zu Venedig, 1712; geft. zu Pisa, 1764; einer der geschmackvollften neuern Schriftsteller der Jtaliåner, dem Friedrich der Große zu Pisa rin marmornes Denkmal mit der Inschrift: ALGAROTTO OVIDII AEMULO NEWTONI DISCIPULO, ses Ben ließ. Unter seinen Werken, die zu Livorno, 1763 ff. in acht Dktavbånden gafammen herauskamen, befinden sich auch Pistole in Verfi, durch, meistens moralischen, Inhalt und schonen Vortrag schakbar, die schon vorher zu Venedig, 1759. 12. besonders herausgegeben waren.

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Dolce mi fa, Spirto gentil, tua voce,
E la dolcezza ancor dentro mi suona,
Dico in quel giorno che di nobil laude
Onor tu fefti agli umil versi, ond'io,
Colpa d'ingegno, il ver troppo scemai
Orazio non ugual d'Augusto al pondo.
Qual fia mio dir, dal tuo volume imparo,
De' bei versi le vie; da te cui spira
Amore i sensi, e detta i modi Apollo.
Dai dorati palchetti e dall' arena
A te fa plauso la leggiadra gente :
Lieta ch' omai per te l'Itale Scene
Grave passeggia il Sofocleo coturno.
Quel è fra noi che per la via non muova
Delle lagrime dolci, allor ch' Enea,
Seguendo Italia i duri fati e i venti,
Tronca il

canape reo, o allorch’ Ulille
Il nuovo Achille tuo che in trecce e'n gonna
Le Omeriche faville in petto volve
Dal fen d'Amor lo guida in braccio a morte ?

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Algarotti.

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Chi della Patria non prende i costumi,
E le leggi ad amare, e l'aria, e i fasli
Dal Temistocle tuo? Chi non s'infiamma
Di Tito alle virtù, delizie ancora
Entro a' tuoi versi dell'uman legnaggio?
Fra tanti plausi tuoi, Spirto gentile,
Te non muova il garrire impronto et acro
Di lingua velenosa. Ogni più bella
Pianta degli orti onor, fpeme dell'anno,
Che cuopre d'ombra l'uom, di frutta il ciba,
Di vili bruchi è nido ancora e pasto.
Fra i Quintilj fra i Tucca e i buon Pifoni
Ebbe i Pantilj suoi, ebbe i suoi Fannj
Il Venofino anch'esso: E or bianco Cigno
Dalla fonante Iberica marina
Dell' Invidia maggior, maggior del tempo
All Iperboreo Ciel batte le piume.
Nuovo non è che la volgare schiera
Solo dagli anni la virtude estimi,
E più la ruggin che il metallo apprezzi.
Forse la vena del Castalio fonte
Secca è a' di nostri, e di Parnaso in cima
Forse soli poggiar Petrarca e Dante?
Molto fi pad dell'Ippocrenio umore
Bere di forga al cristallino fiume,
E vincon le Dantesche oscure bolge
Molti raggi Febei, molte faville. -
Nè della culta Italica favella
Ai padri sia che troppo onor tu paghi,
Ma per ciò del Guarini i molli versi
Ne la nobile tuba di Goffredo,
Nè la cetera d'or, vita d'Eroi,
Che la Pindaro in dono ebbe Chiabrera,
Ne te udir non dovremo armonioso
Nuovo cantor, che dall' Aonie cime,
Con la ricca tua vena il Lazio bei?
E dovremo soltanto i nostri mari
Correre, e non dovremo anche per l'acque
Inglesi o Franche alzar la vela arditi,
Nè il Latino Océan tentar ne 'l Greco,

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Algarotti, Donde ignota fra noi Parnasia merce

Recar poi vincitori ai Toschi lidi,
E il fermone arricchir patrio ed il canto?
O di servile età povere menti!
Nulla dunque lalciar Petrarca, e Dante
All'industria de' pofteri e all'ingegno?
Dunque fra noi la lunga arte d'Apollo
Perfetta surse in rozze etadi, in cui
L'arti che pur di lei sono forelle
Giaceano nell' Unnica ruina?
L'indotto Cimabue scarno ed esangue
Era Apelle a quei giorni; il duro bronze
Fra le mani a Cellin le molli forme
Non avea preso ancor, nè ancora avea
Michelagnolo al Ciel curvato e spinto
Il miracol dell'arte in Vaticano.
Qual la grinza Canidia il cuor fi rode
Ove Lalage o Cloe, vispa fanciulla,
Bruna il crin, rosea il volto a se dei caldi
Giovanetti l'amore e l'occhio inviti;
Tale è Fannio con te. Viver tuoi versi
Pur egli vede, e farsi con diletto
De' tuoi detti conserve in ogni loco;
Mentre gli aurei volumi, ond' egli rende
A Monaca o a Dottor Febeo tributo
Muojono al par dell'ultima Gazzetta.
Quindi, credilo a me, quello sdegnolo
Grammatico faggiuol ch' ha sempre allato
Quindi Dante e Petrarca, e i miglior tempi
In bocca ha sempre, e quella invida lode,
Che fol per odio a' vivi i morti esalta'.
Ma di là dell'Italico Apennino
Miri costui del bel Sequana in riva,
Dove l’Achille tuo di nuova lingua
Ma non dia ni più fine rivestito
Sforza i voti e l'applauso infra una gente
Culta d'ogni saper, ricea d'ogni arte
E del Lazio rivale; e quell'onore
Ti rende ad una voce, estrania gente,
Qual ti rendranno i posteri tra noi.

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