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Alamanni.

Truove il Gallico fen, ficuro pofi.
Sotto l'ali Signior del vostro impero
Et fe qui non havrà (come hebbe altrove)
Cofi tepido il fol, fi chiaro il cielo ;
Se non vedrà quei verdi colli Thofchi
Ove ha il nido piu bel Palla et Pomona
Se non vedrà quei cetri, lauri et mirti
Che del Parthenopeo veftan le piagge;
Se del Benaco et di mill'altri infieme
Non faprà qui trovar le rive, et l'onde
Se non l'ombra, gli odor, gli fcogli ameni
Che'l bel Liguro mar circonda et bagnia;
Se non l'ampie pianure, e'i verdi prati
Che'l Po, l'Adda, e'l Thefin rigando in fiora
Qui vedrà le campagnie aperte, et liete,
Che fenza fine haver vincon lo fguardo;
Ove il buono arator fi degnia à pena
Di partir'il vicin con foffa, o piętra;
Vedrà i colli gentil sì dolci et vaghi;
E'n fi leggiardro andar, tra lor disgiunti
Da fi chiari rufcei, sì ombrofe valli
Che farieno arreftar chi piu s'affretta,
Quante belle facrate felve opache
Vedrà in mezzo d'un pian tutte ricinte
Non da crude montagnie, o, faffi alpestri
Ma da bei campi dolci, et piagge apriche!
La ghiandifera quercia, il cerro, et l'efchio
Con sì raro vigor fi leva in alto

Ch'ei mostran minacciar co i rami il cielo
Ben partiti tra lor; ch'ogni huom direbbe.
Dal piu dotto cultor nodrite et pofte
Per compir quanto bel fi truove in terra
Ivi il buon cacciator ficuro vada

Ne di fterpo, o, di faffo incontro tema
Che gli fquarce la vefte, o ferre il corfo
Qui dirà poi con maraviglia forfe,
Ch'al fuo charo liquor tal gratia infonde
Bacco, Lesbo obliando, Creta, et Rhodo,
Che l'antico Falerno invidia n'haggia,
Quanti chiari, benigni, amici fiumi

Cor

Mamanni. Correr fempre vedrà di merce colmi;
Ne disdegniarfe un fol d'havere incarco
Ch'al fuo corfo contrario in dietro torni!
Alma facra Ceranta, Efa cortele

Rhodan, Sena, Garona, Era, et Matrona
Troppo lungo faria contarvi à pieno
Vedrà il Gallico mar foave et piano,
Vedrà il Padre Ocean fuperbo in Vista
Calcar le rive, et fpeffe volte irato
Triomphante fcacciar'i fiumi almonte;
Che ben fembra colui che dona et toglie
A quanti altri ne fon le forze, et l'onde.

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Ruccella i.

Ein würdiges Gegenstück zu dem Gedichte des Alaman ni, und demselben gewöhnlich beigedruckt, sind die Bienen des Giovanni Ruccellai, eines Florentiners, geb. 1475, gest. 1525. Virgil's Anweisungen zür Bienenzucht, in seis nem georgischen Gedichte, find darin weiter ausgeführt; und der weise Unterricht des Dichters ist überall mit glücklich ers fundenen und schicklich angebrachten Bildern, kleinen Bes fchreibungen, und angenehmen Episoden belebt. Das gan ze Gedicht besteht aus 1062 reimlosen jambischen Versen, wovon die hier ausgehobenen das Einsammeln des Honigs betreffen.

LE API; v. 707-834.

Nel difiato tempo, che fi fmela
Il dolce frutto, e i lor tefori occulti
Sparger convienti una rorante pioggia;
Soffiando l'acqua, c'hai raccolta in bocca,
Per l'aria, che fpruzzare il vulgo chiama;
E convienti ancho havere in mano un legno
Feffo, c'hebbe già fiamma, hor porta fumo;
Che impedite da quel non piu daranti
Noja, e difturbo nel fottrarli il mele.
Due volte l'anno fon feconde, e fanno
La lor cafta progenie; ei lor figliuoli
Nascono in tanto numero, che pare
Che fian dal ciel piovute fopra l'herbe,
L'una è, quando la rondine s'affretta
Sufpender a le travi luto, e paglie,
Pe' dolci nidi, che di penne impiuma;
Per polar l'uova genitati, che'l corpo.
Non le puo piu patire, e col difio
Già vede i rondinin, che fente il ventre.
L'altra è, quand'ella provida del tempo
Paffa il Tyrrheno, e fverna in quelle parti

Ove

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Ruccellai. Ove fon le reliquie di Carthago.

Ma perche l'Api ancor s'adiran molto;
Habbi gran, cura, quando grave oltraggio
Indegnamente han ricevuto a torto,
Perciò, che quando Dio creò l'Amore
Infieme a lato a lui pofe lo fdegno
Si che ben guarda, che nei piccioi corpi
Non già picciol furor di rabbia, e d'ira
Ondeggia, e bolle; e come acqua in caldaja
Che fotto'l negro fondo ha fuoco ardente,
Fatto di fcheggie, o di fermenti fecchi,
Trabocca il bollor fuor da i labbri eftremi,
Che in fè non cape, e le gonfiate fchiume
Ammorzan, fotto la ftridente fiamma
E'l fuoco crefce e infieme un vapor negro
Sinnalza, e vola come nube in aria.
Così fan l'Api indegnamente offefe.
Alhora è il morfo lor rabbiofo e infetto,
E sì mortal velen le in fiamma il cuore,
Che le cieche faette entr'a le piaghe
Lafciano infiffe con la vita infieme.
Se tu poi temi il crudo algor del verno,
`E fe vuoi riípiarmar per l'avvenire
F compatire a gli animi contufi
A le fatiche de l'affitto gregge;
Non dubitar di profumar col thyme
Ben dentro gli apiarii, e col coltello
Recider le fofpese, e vane oere,
Perciò, che fpeffo dentro ai crefpi favi
La ftellata lacertola dimora

E mangia il mel con l'improvvifo morfo
Piglia l'imbuto, onde fe infonde il vino
E ponil poi tra le vicine målve;
Colilume dentro, e ftia fu quattro faffi
Quattro dita alto, acciò che quella luce
Riluca fuor, che le farfalle alletta.
Non prima harai pofato il vafo in terra,
Che fentirai rónzar per l'aere cieco
Finfieme il crepitar de l'ale ardenti
E cader corpi femivive, e morti

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Et ancho il fumo ufcir fuor del cammino
Con tal fetor, che volterai la faccia
Torcendo il nafo, e ftarnutando infieme
Però t'avverto, che pofato il vafo,
Ti fugga, e torni poi quivi a poi' hore
Dove vedrai tutto quel popol morto;
Che farebbe un fpetta colo nefando
A quel gran faggio, che produffe famo
Come quando una vasta antiqua nave,
Fabbricata dal Popol di Liguria
Se'n la nitrofa polvere s'appicca
Per qualche cafo inopinato il fuoco
Tutta s'abbrucia l'infelice gente,

In varii modi; e chi'l petto, e chi'l collo
Ha manco, e chi le braccia, e chi le gambe
E quale è senza capo, e chi dal ventre
Manda fuor quelle parti, dove il cibo
S'aggira per nutrir l'humana forma
Cofi parranno alhor quei vermi eftinti.

Beisp. Samml. 3. B.

F

Men

Ruccellai.

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