Che non m'aveffe dal furor marino
Lafciato tor di riveder Zerbino.
Come ch' io aveffi fopra il legno vesti Lafciato, e gioje, e altre cofe care, Pur che la fpeme di Zerbin `mi refti, Contenta fon, che s'abbia il resto il mare. Non fono, ove fcendemmo, i liti pefti D'alcun fentien, nè intorno albergo appare; Ma folo il monte, al qual mai fempre fiede L'ombrofo capo il vento, e'l mare il piede.
Quivi il crudo tiranno Amor, CHE sempre D'ogni promeffa fua fu disleale,
E fempre guarda, come involva, e ftempre Ogni noftro difegno razionale,
Mutò con trifte, e dilonefte tempre
Mio conforto in dolor, mio bene in male; Che quell' amico, in chi Zerbin fi crede, Di defire arfe, ed agghiacciò di fede.
O che m'avesse in mar bramata ancora,
Nè foffe ftato a dimoftrarlo ardito; O cominciaffe il defiderio all' ora, Che l'agio n'ebbe dal foligno lito: Difegnò quivi fenza più dimora Condurre a fiu l'ingordo fuo appetito, Ma prima da fe torre un de li dui, Che nel battel campati eran con nui.
Quell' era uomo di Scozia, Almonio detto,
Che moftrava a Zerbin portar gran fede, E commendato per guerrier perfetto,
Ariosto. Da lui fu, quando ad Odorico il diede. Difle a coftui, che biasmo era, e difetto, Se mi traeano a la Rocella a piede; E lo pregò, ch' innanzi volesse ire, A farmi incontra alcun ronzin venire.
Almonio, che di ciò nulla temea, Immantinente innanzi il cammin piglia A la città, che'l bofco ci áfcondea, E non era lontana oltra féi miglia. Odorico fcoprir fua voglia rea A l'altro finalmente fi configlia; Sì, perchè tor non fe lo fa d'appreffo, Sì, perchè avea gran confidenza in effo.
Era Corebo di Bilbao nomato
Quel, di ch' io parlo, che con noi rimafe Che da fanciullo picciol allevato S'era con lui ne le medefme cafe. Soter con lui comunicar l'ingrato. Penfiero il traditor fi perfuale, Sperando ch' ad amar faria più presto Il piacer de l'amico, che l'onefto.
Corebo, che gentli era, e cortefe, Non lo potè afcoltar fenza gran fdegno; Lo chiamò traditore, e gli contefe Con parole, e con fatti il rio disegno. Grande ira a l'uno, e a l'altro il core accefe, E con le fpade nude ne fer fegno: Al trar de' ferri io fui da la paura Volta a fuggir per l'alta felva ofcura.
Odorico, che maftro era di guerra, In pochi colpi a tal vantaggio venne, Che per morto lafciò Corebo in terra, per le mie veftigie il cammin tenne. Preftogli Amor, fe'l mio creder non erra Perchè poteffe giungermi, le penne, E gl' inlegnò molte lufinghe, e preghi, Con che ad amarlo, e compiacer mi pieghi.
Ma tutto indarno, che fermata, e certa Più tosto era morir, che fatisfarli: Poi ch' ogni prego, ogni lufinga esperta Ebbe, e minacce, e non potean giovarli, Si riduffe a la forza a faccia aperta. Nulla mi val, che fupplicando parli De la fè, ch' avea in lui Zerbino avuta, E ch' io ne le fue man m'era creduta.
Poi che gittar mi vidi i preghi in vano, Nè mi fperare altronde altro foccorfo, E che più fempre cupido, e villano A me venia, come famelico orfo: Io mi difefi con piedi, e con mano, Et adopraivi fino l'ugne, e il morfo; Pelaigli il mento, gli graffiai la pelle, Con ftridi, che n'andavano a le ftelle.
Non fo, le foffe cafo, o li miei gridi,
Che fi doveano udir lungi una lega,
pur ch' ufati fian correre a i lidi,
Quando naviglio alcun fi rompe, o annega; Sopra il monte una turba apparir vidi, E quefta al mare, e verfo noi fi piega. Beisp. Samml. 6. B.
Ariosto. Come la vede il Biscaglio venire, Lafcia l'imprefa, e voltafi a fuggire.
Contrà quel disleal mi fu ajutrice Questa turba, Signor: ma a quella image Che fovente in proverbio il volgo dice, CADER de la padella ne le brage.
Gli è ver, ch' io non fon ftata sì infelice, Nè le lor menti ancor tanto malvage, Ch' abbiano violata mai perfona;
Non che fia in lor virtù, nè cola buona.
Ma perchè, fe mi ferban, com' io fono, Vergine, fperan vendermi più molto. Finito è il mefe ottavo, e venne il nono, Che fu il mio vivo corpo qui fepolto. Del mio Zerbino ogni fpeme abbandono; Che già per quanto ho da lor detti accolto, M'han promeffa, e venduta a un mercadante, Che portare al Soldan mi de' in Levante.
Così parlava la gentil Donzella, E fpeffo con finghiozzi, e con fofpiri Interrompea l'angelica favella, Da movere a pietade Afpidi, e Tiri, Mentre fua doglia così rinnovella, O forfe difacerba i fuoi martiri, Da venti nomini entrar ne la fpelonca Armati, chi di fpiedo, e chi di ronca.
Nicolo fortinguerra, ein Römer, geb. 1674, geft. 1735, schrieb ein sehr wißiges und geiftvolles Rittergedicht, Il Ricciardetto, in dreissig Gesängen, welches unter dem verdeckten Namen des Verfaffers (Carteromaco), gedruckt wurde. Die Manier ist zwar arioßtisch, aber doch auch sehr original, besonders in den epigrammatischen Wendungen, die faft überall am Schluß der Stanzen vorkommen. Rice ciardetto ist gleichfalls einer von den Rittern Karls des Groffen, der den Sohn eines afrikanischen und farazenischen Königes, Scricca, erschlagen hat. Despina, des Erschlas genen Schwester, reizt ihren Vater zur Rache und zum Kriege auf, an welchem sie selbst persönlichen Antheil `nimmt. Zwischen ihr und dem Ricciardetto entsteht allmåhlig eine gegenseitige Liebe. Endlich wird der legtre Karls Nachfolger, Scricca ein Christ, und Despina die Gemahlin Ricciardetto. Diesen Stof hat die reiche und sehr blähende Einbildungskraft des Dichters mit mancherlei wundervollen Nebenhandlungen zu verflechten gewußt. Die aus dem Pulci und Ariost schon bekannten Mitter, den Ros land, Rinaldo, Astolfo und Olivieri, findet man auch hier wieder; und sehr original ist der Charakter des Ferrau', eines Kriegers und wollüftigen Mönchs. Man vergl. Hrn. heinse's Briefe über dieß Gedicht im Teutschen Merkurvom J. 1775, Viertelj. II. S. 15. IV. S. 33. 242. Der dort befindliche Auszug sowohl, als die deutsche Uebersehung in Versen vom Hrn. Prof. Schmitt in Liegnig, find unvollens Det geblieben. Hier ist Filomene's Geschichte, womit der fünfte Gesang anhebt.
RICCIARDETTO, Canto V. St. I-50.
Non fi può ritrovar al mio parere Cofa nel mondo, che più bella fia, E che ci apporti più dolce piacere,
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